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diagnosi avanzate,
trattamenti personalizzati
e tecnologie all'avanguardia
per la prevenzione e cura delle patologie cardiovascolari
Servizi
Il Dr. Giovanni Vaccaro offre una vasta gamma di servizi cardiologici all’avanguardia, dedicati alla diagnosi e al trattamento delle patologie cardiovascolari.

Visita cardiologica
Elettrocardiogramma


Ecocardiogramma
Ecodoppler Carotidi


Test cardiovascolare
da sforzo
Ecg Holter delle 24 H


PATOLOGIE
L’ischemia coronarica, conosciuta anche come cardiopatia ischemica, è una particolare condizione cardiologica che interessa le coronarie, incapaci di apportare sangue ed ossigeno al cuore a causa di un restringimento progressivo (stenosi). Nei pazienti che ne soffrono il muscolo cardiaco, richiede più ossigeno di quello che le coronarie possono garantirgli, facendo entrare il cuore in uno stato di sofferenza.
Il deficit di ossigeno può essere acuto o cronico, transitorio o permanente e, in quest’ultimo caso, portare con sé gravi danni, danneggiando il cuore e riducendone la funzionalità. L’ostruzione improvvisa delle coronarie può altresì portare all’infarto del miocardio, assieme ad un elevato rischio di arresto circolatorio e, in molti casi, al decesso.
È possibile fare una distinzione fra le cause della cardiopatia ischemica e i fattori di rischio cardiovascolare. Fra le principali cause si annoverano l’aterosclerosi e gli spasmi coronarici, mentre i fattori di rischio includono:
- ipercolesterolemia;
- diabete;
- ipertensione arteriosa;
- vita sedentaria;
- stress;
- obesità;
- predisposizione genetica.
I campanelli d’allarme per l’ischemia coronarica includono sintomi come:
- dolore toracico;
- difficoltà di respirazione;
- sudorazione;
- svenimento;
- nausea e vomito.
Per una corretta prevenzione della cardiopatia ischemica è necessario intervenire sull’identificazione e la correzione dei fattori di rischio principali come il fumo, la sedentarietà e l’obesità. Inoltre, sono da tenere sotto controllo anche soggetti che soffrono di ipertensione e diabete, ma non solo. Per questo è di fondamentale importanza condurre uno stile di vita sano, svolgere regolarmente attività fisica e sottoporsi a controllo cardiologico. Per diagnosticare l’ischemia coronarica possono essere richiesti alcuni esami strumentali come:
- l’elettrocardiogramma, che registra l’attività elettrica del cuore e permette di individuare la presenza di anomalie;
- il test da sforzo, che consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma mentre il paziente compie uno sforzo fisico;
- scintigrafia miocardica, un altro esame da sforzo richiesto nei casi in cui il solo elettrocardiogramma non è adeguatamente interpretabile;
- ecocardiogramma, che permette di visualizzare le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili;
- coronarografia, che permette di visualizzare le coronarie attraverso l’iniezione di un mezzo di contrasto al loro interno;
- tomografia computerizzata (TAC coronarica), per valutare la presenza di calcificazioni all’interno dei vasi coronarici;
- risonanza magnetica nucleare, che permette di produrre immagini dettagliate della struttura del muscolo cardiaco e dei vasi sanguigni.
Il miocardio di conduzione (o miocardio specifico) è la parte del muscolo cardiaco che – al contrario del miocardio di lavoro – provvede alla conduzione dell’impulso di contrazione lungo il cuore e permette ad atri e ventricoli di contrarsi in modo fisiologicamente asincrono. Il miocardio di conduzione è costituito da una serie di cellule capaci di creare e condurre l’impulso: le cellule P che compongono i nodi, le cellule di transizione (poste alla periferia dei nodi) e le cellule di Purkinje, cioè le cellule diramate e filamentose che rappresentano la parte terminale del sistema di conduzione cardiaco. Il sistema di conduzione comprende:
- nodo seno-atriale;
- nodo atrioventricolare;
- diramazione intraventricolari del nodo atrioventricolare.
Oltre alla conduzione e alla distribuzione dello stimolo contrattile il sistema di conduzione del cuore è responsabile dell’insorgenza dello stimolo contrattile: l’automatismo cardiaco. Il viaggio dell’impulso è così riassunto:
- L’impulso parte dal nodo seno-atriale che è il pacemaker del cuore, in quanto da esso ha origine e si diffonde ritmicamente ed in maniera autonoma lo stimolo contrattile responsabile del battito cardiaco. Si trova nello spessore della parete dell’atrio destro, lateralmente allo sbocco della vena cava superiore e in corrispondenza del tratto iniziale del solco terminale. Ha la forma di un fuso con miocardiociti specifici fittamente stipati ( cellule nodali).
- Il nodo atrioventricolare (di Aschoff-Towara) è situato a destra della parte basale del setto interatriale in vicinanza dello sbocco del seno coronario (un suo punto di repere è il triangolo di Koch). È irrorato da uno specifico ramo arterioso originato dall’arteria coronaria dominante a livello della crux cordis.
- Il fascio atrioventricolare (di Hiss) dopo essere originato dal rispettivo nodo penetra nel trigono fibroso dx e da qui raggiunge la parte membranosa del setto interventricolare. Da qui si divide in 2 rami: destro e sinistro. Il fascio atrioventricolare è costituito da cellule nodali che, a mano a mano che ci si allontana dal nodo atrioventricolare, assumono l’aspetto delle tipiche cellule giganti di Purkinje.
La branca dx e quella sx hanno un comportamento diverso:
- quello di dx continua il suo percorso nel setto interventricolare e poi si ramifica;
- quello di sx invece, scavalca il setto e si ramifica subito.
In teoria lo stimolo contrattile può insorgere a qualsiasi livello del sistema di conduzione ma assume il ruolo di pacemaker la parte di tessuto specifico che possiede l’automatismo a frequenza più elevata: nel caso del nostro cuore è il nodo seno-atriale con i suoi 70 battiti al minuto.
Le aritmie cardiache sono un disturbo comune, ma non sempre pericoloso. I principali sintomi sono: Stanchezza, affanno, sensazione di avere il “cuore in gola”: così si manifestano le aritmie cardiache, cioè alterazioni della frequenza o della ritmicità del battito cardiaco.
Un disturbo che riguarda milioni di italiani, soprattutto over 60 (ma anche sempre più giovani, soprattutto sportivi). Anche se nella maggior parte dei casi si tratta di un fenomeno benigno, è bene non trascurare le aritmie cardiache, ma rivolgersi a uno specialista che possa, in base alle condizioni e allo stile di vita del paziente, valutarne il rischio.
Le aritmie sono benigne il più delle volte. Tuttavia, esistono casi in cui possono essere la spia di:
- qualcosa che non funziona correttamente;
- disfunzioni cardiache o extra-cardiache strutturali o congenite.
Sopratuttto nelle bradicardie si può avvertire:
- stanchezza
- capogiri
- svenimenti o perdita di coscienza
Nelle tachicardie i sintomi possono essere: :
- affanno
- vertigini
- improvvisa debolezza
- palpitazioni
- stordimento.
La prevenzione delle aritmie, laddove possibile, è diversa a seconda della causa scatenante.
In linea di massima, chi ha avuto ad esempio episodi di tachicardia ed extrasistolia, dovrebbe stare attento a:
- sforzi fisici intensi
- stress
- ansia
- abuso di nicotina
- pillole dimagranti
- sostanze eccitanti (come tè, caffè, cocaina, anabolizzanti ecc..).
È ovvio che in presenza di malattie strutturali ed organiche cardiache e non che possono favorire l’insorgenza di artimie, la prevenzione delle aritmie prevede la cura di tali malattie.
La maggior parte delle aritmie non necessita trattamento.
La terapia, nei casi in cui serve, è innanzitutto legata alla correzione della malattia cardiaca di base o non cardiaca, e deve essere personalizzata in base ai sintomi, ai disturbi e al rischio specifico.
Una terapia specifica, come per esempio l’applicazione di pacemaker (cioè una batteria artificiale impiantata sottocute), può essere indicata in caso di bradiaritmia significativa.
Una terapia farmacologica antiaritmica oppure un defibrillatore cardiaco (una batteria che eroga shock elettrici) sono indicati in alcune tachiaritmie ventricolari minacciose.
Nonostante le tante terapie disponibili, l’ipertensione rimane il principale fattore di rischio per malattie cardiovascolari, con una prevalenza stimata tra il 30-40% nella popolazione europea. Rappresenta il fattore di rischio correlato maggiormente a eventi cardiovascolari (infarto, ictus, emorragia, scompenso cardiaco ecc).
L’ipertensione arteriosa è definita da valori di pressione sistolica ≥140 mmHg e/o di pressione diastolica (PAD) ≥90 mmHg, sulla base dei dati di numerosi studi clinici in cui i pazienti che presentavano tali valori pressori, traevano beneficio dalla riduzione pressoria indotta dal trattamento. A seconda dei valori di pressione arteriosa, l’ipertensione arteriosa può essere classificata e definita in vari gradi:
Come suggerito dalle linee guida Europee e Americane, viene raccomandata la misurazione out of office, quindi preferibilmente fuori dall’ambiente medico. La misurazione domiciliare può dare un valido contributo nella gestione del paziente, con probabile o possibile reazione di allarme nello studio del medico, con un impatto quindi nullo nel sistema sanitario. Questo determina anche una maggiore responsabilizzazione del paziente sulla diagnosi e sul monitoraggio dell’ipertensione stessa; misurazioni ripetute della pressione domiciliare sono sconsigliate in pazienti eccessivamente ansiosi, poiché possono determinare un’eccessiva reazione di allarme. Il monitoraggio delle 24 h, come l’holter pressorio, fornisce numerosi dati aggiuntivi, quali la pressione arteriosa notturna e la sua variazione circadiana. Questo permette di riconoscere il normale calo della pressione nelle ore notturne (dipping con calo tra il 10 e il 20 %), chi non presenta questo fisiologico calo (non dippers inferiore al 10%), chi lo presenta in eccesso (extremedippers> 20%), e chi invece presenta valori notturni più elevati rispetto all’intera giornata (reverse dipping).
In questa ultima tipologia di pazienti si ha un rischio doppio di malattie cardiovascolari. In questi soggetti bisogna porre attenzione a eventuale presenza concomitante di disturbi del sonno, come le apnee notturne, che potrebbero spiegare questi pattern e che sono ben noti fattori di rischio cardiovascolari.
Ipertensione e danno d’organo
L’ipertensione arteriosa si associa frequentemente allo sviluppo e alla progressione di alterazioni strutturali e funzionali a livello dei cosiddetti organi bersaglio, tra cui cuore, rene e cervello. La presenza di tali alterazioni, modifica il profilo di rischio cardiovascolare globale dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa, conferendo un profilo di rischio elevato, indipendentemente dai valori di pressione arteriosamisurati. Per tale motivo, le linee guida europee, raccomandano di eseguire la ricerca del danno d’organo in tutti i pazienti affetti da ipertensione arteriosa, sia da un punto di vista diagnostico al fine di caratterizzare meglio il profilo di rischio cardiovascolare globale individuale, sia da un punto di vista terapeutico al fine di guidare la scelta della migliore strategia farmacologica antipertensiva. Molto spesso il paziente con iniziale danno d’organo risulta asintomatico, in ogni caso il rischio cardiovascolare risulta più elevato quanti più organi sono interessati da tale complicanza. Ciò può essere considerato un indicatore preclinico di malattia cardiovascolare, di riscontro tanto più frequente quanto maggiore è il ricorso a esami strumentali come l’ecocardiogramma e l’ecodoppler delle carotidi.
I primi processi alla base del danno d’organo causato dall’ipertensione sono l’incremento della rigidità delle arterie e il danno all’endotelio, cioè il tessuto di cellule che riveste la parte interna dei vasi.
Il concetto della rigidità arteriosa riguarda i vasi con maggiore elasticità, primi tra tutti l’aorta.
Per rigidità arteriosa si intende la ridotta distensibilità dei vasi arteriosi che nel caso delle arterie centrali di grosso calibro (aorta, carotidi) riflette sia complesse variazioni strutturali, come la deposizione di collagene, sia alterazioni della funzione endoteliale. Dirette conseguenze dell’irrigidimento sono la perdita della funzione di “cuscinetto” delle arterie. I tessuti cardiaco e cerebrale, per le loro caratteristiche anatomiche, sono più esposti alle conseguenze emodinamiche dell’irrigidimento arterioso, quali l’aumentata pressione differenziale e la ridotta perfusione coronarica.
Durante la contrazione del ventricolo sinistro una parte dell’energia prodotta, viene immagazzinata nella parete dell’aorta e delle arterie principali, quando il ventricolo sinistro si rilascia (fase diastolica) quindi non esercita più la sua funzione di pompa, l’energia immagazzinata nelle pareti arteriose viene rilasciata, consentendo di proseguire la spinta del sangue in avanti verso i tessuti periferici, garantendo così un flusso continuo necessario all’apporto di ossigeno in organi e tessuti. Da ciò, si evince come l’onda di pressione sia generata dalla sommatoria della pressione anterograda, data dalla contrazione del ventricolo sinistro e da quella riflessa, detta anche onda di ritorno determinata dall’impatto della prima sulla resistenza delle arterie. Una maggiore rigidità arteriosa determina quindi un aumento dell’onda di ritorno, causando un incremento del picco pressorio e un aumento della pressione arteriosa centrale.
Gli esami di base per la valutazione di un iniziale danno d’organo nei pazienti ipertesi dovrebbero comprendere:
- Elettrocardiogramma a 12 derivazioni;
- Esame delle urine per valutazione di microalbuminuria e rapporto albumina/creatinina;
- Prelievo di sangue con dosaggio della creatinina;
- Fondo oculare per identificare retinopatia;
- Ecocardiogramma per valutare iniziali segni di ipertrofia ventricolare sinistra;
- Ecocolordoppler delle carotidi necessario per misurare lo spessore del vaso ed eventuali placche aterosclerotiche;
- Eco addome per valutazione aorta addominale, reni e arterie renali.
Quando e come iniziare la terapia anti-ipertensiva
Nei pazienti con un elevato rischio cardiovascolare, cioè con patologia cardiaca già nota, è plausibile l’inizio di una terapia anti-ipertensiva anche con valori poco sopra la norma, lo stesso vale per i soggetti di età compresa tra 65 e 80 anni. Resta dato imprescindibile che la prima terapia in assoluto, è rappresentata dalle modifiche dello stile di vita. Intraprendere e mantenere un corretto stile di vita, consente di rimanere in buona forma fisica e prevenire l’insorgenza di ipertensione, ma anche di ridurre di alcuni punti i valori di pressione, qualora questa patologia fosse già manifesta. Qui in breve un elenco dei fattori modificabili nello stile di vita, da cui trarre giovamento in termini di mantenimento della pressione arteriosa:
- Riduzione dell’apporto di sale con la dieta: mediamente con la dieta si introducono 9-12 grammi di sale (cloruro di sodio), riducendo il consumo a 5-6 grammi, si è osservata una riduzione dei valori pressori fino a 5 mmHg.
- Moderare l’assunzione di alcol: tra il consumo di alcol e l’innalzamento della pressione esiste una relazione ben precisa.
- Seguire una dieta ricca di frutta e verdura: molti studi documentano la riduzione della mortalità con la dieta mediterranea, utile considerare consumo di pesce almeno due volte la settimana e assunzione quotidiana di 300-400 grammi di frutta e verdura.
- Controllo del peso corporeo: l’eccesso di peso e quindi di grasso, si associa a rialzo pressorio, la perdita di 5 kg di massa corporea per un soggetto iperteso e sovrappeso, determina un calo di circa 4 mmhg.
- Praticare regolare esercizio fisico: raccomandata attività sportiva aerobica come nuoto, camminata veloce, corsa, bicicletta. I soggetti ipertesi dovrebbero praticare tale attività per almeno 30 minuti per 5-7 giorni la settimana.
- Abolizione del fumo di sigaretta: il fumo una volta inalato, causa un rapido aumento dei valori pressori e della frequenza, che rimangono elevati nei venti minuti successivi,
- determinando così picchi ipertensivi.
Terapia farmacologica
La maggior parte dei pazienti richiede, oltre alle modifiche dello stile di vita, l’inizio di una terapia farmacologica. Non tratteremo i vari farmaci presenti nel panorama ipertensivo anche per complessità, ma mi limito a dire che oggi si riconoscono numerose classi farmacologiche efficaci nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, anche di grado severo.
Una condizione di ipertensione arteriosa prolungata nel tempo e non curata in modo adeguato, può portare ad aterosclerosi, infarto del miocardio, ictus, emorragia, scompenso cardiaco.
L’aterosclerosi può causare anche il restringimento dei vasi che irrorano gli occhi, causando una condizione nota come retinopatia ipertensiva da cui derivano problemi della vista.
Da tutto ciò si evince come, per le malattie cardiovascolari, in questo caso l’ipertensione, la prevenzione, la modifica dello stile di vita e il trattamento farmacologico stesso, rappresentino una chiave di volta fondamentale per la riduzione della mortalità.